Pubblico Impiego, presentata la ricerca USB sui nuovi assunti: trentenni, laureati e sottoimpiegati. Naddeo (Aran): in Italia il dipendente pubblico è considerato soltanto un costo, è il MEF a fare la vera politica della PA
L’Unione Sindacale di Base e il Cestes (Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali) hanno presentato oggi pomeriggio a Roma, al Centro congressi Cavour, un’indagine su 1170 nuovi assunti dal 2018 nella Pubblica Amministrazione. Il presidente dell’Aran Antonio Naddeo, intervenuto al convegno, ha avuto parole di apprezzamento per l’iniziativa USB, “un lavoro encomiabile, che nessuno finora ha fatto, lo terrò in considerazione”, analizzandolo poi a partire dalla propria esperienza personale: “Io non volevo entrare nel Pubblico Impiego – ha raccontato Naddeo – e da quando sono entrato non è cambiato nulla. Ancora oggi ai giovani assunti non viene trasferito nulla e la formazione rimane sulla carta. Se io chiedo a un dirigente quanto è costato un progetto di formazione mi saprà indicare la cifra al centesimo, ma se gli chiedo quali sono stati i risultati, mi risponderà ‘non lo so’. Parliamoci chiaro: in Italia la politica della Pubblica Amministrazione la fa il MEF, perché il Pubblico Impiego viene considerato solamente un costo. Questo è il vero problema del nostro Paese. C’è una grandissima abilità nel rispondere alle emergenze ricorrendo al precariato, mentre la PA ha bisogno di essere strutturata in maniera organica e ordinaria, non di eterna rincorsa ai problemi. Mi auguro che la pandemia sia stata di insegnamento”.
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Dall’indagine USB Cestes emerge un ritratto che si discosta molto dal luogo comune sul dipendente pubblico scansafatiche. Nel campione prevalgono i trentenni, la stragrande maggioranza è almeno laureata, e l’impiego nella PA è frutto della scelta di mettersi al servizio della collettività dopo esperienze lavorative nel lavoro privato, in particolare autonomo.
Molti si sentono sottoimpiegati rispetto alle proprie competenze - titoli di studio elevati a cui però non sempre consegue la copertura di una posizione in cui è richiesta la laurea -, relegati a mansioni ripetitive e alienanti e perciò impossibilitati a fornire il contributo che potrebbero dare. In buona sostanza la PA dilapida il patrimonio professionale a disposizione.
Le retribuzioni sono considerate inadeguate e le prospettive di carriera assenti. L’ingresso nella PA garantisce però una stabilità che, per le nuove generazioni, è una novità. Va precisato che l'inchiesta è stata svolta prima che le nuove modalità di reclutamento volute dal ministro Brunetta introducessero elementi di precarietà anche nella Pubblica Amministrazione con le assunzioni legate al PNRR e non solo (contratti a termine, collaborazioni esterne, apprendistato).
Sotto accusa è l’organizzazione del lavoro antica ed estremamente burocratica, nella quale non sono chiari ruoli e responsabilità. Punto dolente è l’assenza di formazione, denunciata dalla grande maggioranza di nuovi assunti, che equivale alla rinuncia a valorizzare il personale e a farne un punto di forza. Altri mali sono i tagli realizzati con la spending review e l’influenza della politica.
Ce n’è anche per il sindacato, che non svolge più la sua funzione, proponendo contrattazioni al ribasso e la logica del “meno peggio”: meglio rinunciare ad alcuni diritti che perdere il posto. I neoassunti intercettati ritengono infatti che per migliorare la propria condizione sia più utile rivolgersi direttamente al datore di lavoro.
La ricerca. Il 38% del campione lavora nelle amministrazioni centrali, il 34% negli Enti pubblici non economici e il 23% nelle amministrazioni locali, il 5,5% in altri enti. Lo strumento d’indagine è un questionario CAWI, i cui risultati sono stati elaborati con il software JotForm.
PA al femminile. Tra gli intervistati prevale il genere femminile (58,8%), e i trentenni costituiscono oltre la metà del panel (51,5%): la fascia d’età più consistente è 30-34 anni (29,4%), seguita da 35-39 (22,1%). I quarantenni sono il 24,9%, i cinquantenni il 13,5% e gli under 30 il 10,1. Il 39,6% risiede al Nord, il 34,7% al Centro e il 25,8% tra Sud e Isole. Il 40,4% ha dovuto spostarsi dal proprio comune di residenza e tra questi il 39,6% proviene da un’altra regione.
Laureati. L’86% è almeno laureato, contro il 12,6% con diploma di scuola media superiore e l’1,4% con la media inferiore. Il 90,5% aveva già avuto esperienze lavorative, per i ¾ nel settore privato, essenzialmente come lavoratori autonomi. Il 77,9% proviene da famiglie in cui entrambi i genitori lavorano (o lavoravano). Quasi la metà (49,1%) è stata assunta con profilo da funzionario, il 36,5% da impiegato e il 7,4% come operatore/ausiliario.
Inefficienza. Per quanto riguarda i giudizi generali sulla PA, oltre il 77% non crede che i dipendenti pubblici siano fannulloni ma solo il 35,2% pensa che siano molto qualificati (il 34,8% non lo pensa, il 30% dà un giudizio neutro). Sebbene il 46,4% ritenga la PA orientata al servizio del cittadino (non lo è per il 26,7% e il 26,9% rimane in campo neutro) il 46,2% la giudica non efficiente (lo è per il 25%), perché sono troppi i dipendenti pubblici anziani e non formati bene (71,6%), ci sono ancora sprechi (68,1%) e il 55,3% ritiene che il vero problema siano le ingerenze politiche (per il 25,8% non lo sono). Divisivo il giudizio sul rinnovamento della PA: per il 39,8% c’è stato, per il 34,4% no e il 25,8 non si sbilancia. Resta il fatto che i diritti dei lavoratori sono ben garantiti (57,5%, per il 22,5% non lo sono).
I punti di forza più ricorrenti (risposte multiple) sono: Avere il bene pubblico come obiettivo invece del profitto (60,5%) e La tutela dei diritti dei lavoratori (49,9%). Una quota significativa, ancorché non maggioritaria sceglie Il coinvolgimento del personale per il raggiungimento del bene pubblico (30,1%), L’assunzione di nuovo personale (29,0%) e La professionalità del personale (27,2%). Innovazione, efficienza e autonomia non sono caratteristiche della PA. Neanche Il coinvolgimento della politica nel decidere obiettivi e incarichi è considerato punto di forza.
I punti di debolezza: il tallone d’Achille è Il mancato ricambio generazionale, che ricorre in 2/3 delle risposte. Molto gettonati Le ingerenze politiche (39,3%), La mancanza di personale con professionalità adeguate (38,7%), La spending review (31,7%), Gli sprechi (27,9%) e L’inefficienza (27,3%). Si è perso di vista l’obiettivo del raggiungimento del bene pubblico è punto di debolezza per il 19,1%; Il comportamento negativo dei lavoratori dal 12,6%. Trascurabili le percentuali di chi indica Gli interessi economici o il fatto che I lavoratori godono di privilegi.
Cosa fare per migliorare l’efficienza? Promuovere innovazione tecnologica / digitalizzazione uffici e servizio (62.2%) è l’intervento più gettonato, poi Più investimenti (organizzativi, logistici, sulla formazione, etc...) al 47.0%, Ridurre la burocrazia al 45.1% e Ottimizzare organizzazione strutture e assegnazione organici (41.7%). Per quasi un terzo occorrono Più risorse per rinnovi contrattuali (30.6%), percentuali al massimo del 20% per Ridurre gli sprechi, Monitorare qualità e quantità servizi offerti da PA, Ridurre consulenze esterne e Maggiore trasparenza nell’operato PA.
Intervenire sul personale. Nette le risposte sui rimedi: Formazione del personale (73.9%) e Assunzioni per ricambio generazionale delle professionalità (56.0%) sono largamente maggioritarie. Anche dalla Promozione della mobilità del personale (32.9%) la PA potrebbe trarre maggiore efficienza. C’è poi una quadrupla di opzioni fra il 23,5% e il 17,3%: Migliore selezione dirigenti, Monitorare la dirigenza e il raggiungimento di obiettivi prefissati, Valutazione della produttività individuale dipendenti pubblici e Valutazione della produttività a livello di staff e di team. Residuali le opzioni Migliore selezione dipendenti pubblici, Controllare l’assenteismo dei dipendenti e Intervenire più incisivamente sulla non licenziabilità dei dipendenti pubblici.
Obiettivi. Rispetto ai settori in cui lavorano, i neoassunti ritengono che scopi e obiettivi siano chiari e adeguatamente definiti: ne è convinto il 32,3% e si dichiara abbastanza d’accordo il 44,9%. Quanto alla coerenza tra gli obiettivi dell’ente e il lavoro svolto il 21,4% sostiene che c’è una notevole affinità e il 49,1% la ravvisa abbastanza. Un corposo 19,5% ritiene al contrario che ci sia poco coerenza. Sotto accusa è la comunicazione interna: il 30,1% è poco convinto che gli obiettivi siano comunicati efficacemente e il 5,4% non lo è per nulla.
Sui ruoli organizzativi e l’attribuzione di responsabilità nell’ente in cui lavora, circa la metà non pensa che siano Rispettati da vertici, dirigenza e management intermedio, Ben definiti e formalizzati o che consentano Organizzazione lavoro con ampio coinvolgimento: rispettivamente 49,1%, 49,0% e 46,0%. C’è però sostanziale accordo rispetto al fatto che sia consentita una Organizzazione abbastanza autonoma dei propri incarichi o una Organizzazione [che] favorisce cooperazione fra colleghi, rispettivamente per il 55,7% e il 48,2% degli intervistati.
Il posto. Del nuovo impiego si ritengono fattori positivi È posto garantito, tutelato, con stipendio sicuro (86,6%); Orgoglio quando ente raggiunge un buon risultato (80,7%); Opportunità di lavorare al servizio della collettività (79,9%). Il 57,4% è d’accordo con l’affermazione: È dove avrei voluto lavorare. Poco più di metà (51,3%) sostiene che c’è Buon grado di digitalizzazione dei processi. Un ulteriore 44,9% che sia Stimolante e innovativo, ma il 35,1% è dell’avviso opposto. Simile la polarizzazione su Attenzione a aspetti relazionali, comportamenti corretti che non trova d’accordo il 41,7% vs 37,5% di favorevoli. Infine il 57% circa non è d’accordo che sia una Collocazione temporanea in attesa di migliori opportunità o che ci sia una Forte competizione individuale. Sulle caratteristiche specifiche del lavoro, della mansione e dell’inquadramento, infine, è d’accordo nel considerare Orario e carichi di lavoro sostenibili il 58.1%. Il 47.3% dichiara il lavoro come Adatto alla propria professionalità. Il disaccordo prevale per Formazione adeguata (58,3%), Buone prospettive di carriera e di avanzamento economico (55,9%), Retribuzione adeguata (46,7%). Lo stesso accade per Mansioni sono monotone e ripetitive: non sono un problema per il 41,0%, sebbene contrastati dal 38,3% che invece le ritiene tali.
Sovra istruiti. Il 38,5% dichiara che anche un titolo di studio inferiore a quello posseduto sarebbe bastato a ricoprire il profilo professionale assunto, con punte del 54,0% per i dipendenti delle Amministrazioni centrali e al 47,5% per quelle locali. Di contro è molto basso (12,6%) negli Enti Pubblici non economici. Il 45,8% dichiara di possedere un livello di istruzione troppo elevato per le attività effettivamente svolte. Si arriva al 54,7% di “sovra istruiti” negli Enti Pubblici non economici. Il campo e la tipologia di studi fatti risultano invece largamente appropriati per le mansioni svolte. Dei “sovra istruiti” il 56,2% pensa in futuro sia possibile accedere ad un inquadramento coerente con il titolo di studio, ma il 29% ritiene che sia difficile.
Unione Sindacale di Base – Pubblico Impiego
Roma 6-7-2022
Roma