Se i nuovi “servitori dello Stato” non possono permettersi un alloggio: continua l’indagine di USB PI

Roma -

Tra le tante storture che la contrattazione per il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici sta facendo emergere, sicuramente quella salariale è la più evidente e anche la più dirompente, essendo un dato incontrovertibile, dal momento che a fronte di un’inflazione che nel triennio di riferimento 2022-2024 sta al 17,7%, il governo ha stanziato  risorse per aumenti del 6%, nella migliore ipotesi e non per tutti, il che si traduce in una perdita molto rilevante del potere d’acquisto degli stipendi pubblici.
Uno dei tanti riscontri oggettivi che certificano l’esistenza di una “questione salariale” dei lavoratori pubblici sta nell’elevatissimo numero di rinunce al “posto fisso” da parte di moltissimi neoassunti che hanno sperimentato di non potersi permettere un alloggio nella città di assegnazione con lo stipendio percepito. Un fenomeno che non è marginale e che in alcune città, soprattutto nel Centro-Nord Italia, ha prodotto rinunce superiori al 30% tra i vincitori di concorso.

Da sempre attenti alle questioni abitative, stiamo monitorando questa situazione, anche attraverso un’indagine online (https://www.usbpi.it/campagne/alloggi ) e i dati raccontano di una realtà spesso drammatica, dal momento che in città come Milano, Firenze, Bologna, più della metà dello stipendio viene assorbito dal costo dell’alloggio, con variazioni che vanno dal 35/40% per una singola camera al 60% per un appartamento di piccole dimensioni; a tutto ciò vanno aggiunti i costi delle utenze.

Si crea una situazione paradossale per la quale chi lavora per lo Stato non può permettersi un alloggio nel territorio di quello stesso Stato per cui lavora: quando si verifica una situazione di questo tipo è un segnale evidente che esiste un problema serissimo che mette in discussione la funzione stessa dello Stato.

La nostra scelta di abbandonare il tavolo delle trattative, soprattutto per la mancanza di risorse economiche adeguate (sennò a che serve contrattare?) e di indire uno sciopero generale del pubblico impiego per il 31 ottobre è una risposta chiara e determinata ad una situazione che diventa sempre più drammatica e che solo negli ultimi quindici anni, a partire dal blocco delle retribuzioni voluto da Brunetta e durato sette anni, ha prodotto una perdita di potere d’acquisto dei salari pubblici non più recuperabile e che veleggia verso il 30%, ovvero un terzo dello stipendio.

USB Pubblico Impiego